Socrate e il mare. Il modello odissiaco nel Fedone

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Cristiana Caserta

Resumen

Nel Fedone Platone traccia una biografia intellettuale di Socrate articolata in vari momenti. L’ultimo di essi (τὸν δεύτερον πλοῦν, la “seconda navigazione”) consiste nel passaggio dall’osservazione naturalistica ad una fi- losofia orientata in senso dialogico. La metafora della “seconda navigazione” rimanda al V libro dell’Odissea, in cui Odisseo rinuncia alla vita paradisiaca nell’isola di Calipso per tentare la traversata dell’abisso su una zattera e rag- giungere Itaca. In tutto il dialogo si trovano numerosi riferimenti all’Odissea: l’excursus autobiografico in cui Socrate definisce la propria filosofia può essere confrontato con i Discorsi di Odisseo alla corte del re Alcinoo. In en- trambi i temi principali sono la trasformazione del soggetto al termine di un itinerario conoscitivo e la rinuncia alle seduzioni ed alla passività.

 

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Caserta, C. «Socrate E Il Mare. Il Modello Odissiaco Nel Fedone». Noua Tellus, vol. 32, n.º 2, septiembre de 2015, doi:10.19130/iifl.nt.2015.32.2.473.
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Si può morire nella punizione della tempesta
e in una splendida giornata di sole.
C’è una lezione silenziosa nell’irresponsabilità grande e paurosa del mare,
nel suo ingoiarci buio o solare,
nel suo saper accogliere e accudire le agonie
che scendono nei fondi di silenzio.
Scuola di limite prima di ogni filosofia
Cassano 2010, p. 16.

Il racconto di Socrate

L’idea cardine del Fedone è enunciata da Socrate in 61e:

ϰαὶ γὰϱ ἴσως ϰαὶ µάλιστα πϱέπει µέλλοντα ἐϰεῖσε ἀποδηµεῖν διασϰοπεῖν τε ϰαὶ µυθολογεῖν πεϱὶ τῆς ἀποδηµίας τῆς ἐϰεῖ, ποίαν τινὰ αὐτὴν οἰόµεθα εἶναι·τί γὰϱ ἄν τις ϰαὶ ποιοῖ ἄλλο ἐν τῷ µέχϱι ἡλίου δυσµῶν χϱόνῳ;

Conviene, forse anche in massimo grado, che chi stia per emigrare nell’aldilà indaghi con la ragione e discorra con miti sul soggiorno in quel luogo, come pensiamo che esso sia; del resto che altro si potrebbe fare nel tempo che resta da qui al tramonto?1

Il tema dell’espatrio è il tratto unificante della fitta trama emotiva che si snoda lungo il dialogo e del suo impianto dottrinale e mitico.2

Il viaggio che Socrate si appresta a compiere verso l’aldilà, che si proietta verso una dimensione cosmica nel mito geografico, con cui il dialogo si chiude, non è però l’unico nel Fedone: una parte cospicua del dialogo è infatti dedicata ad un altro viaggio, di cui Socrate è stato protagonista in passato e che egli stesso racconta a Cebete in alcune dense pagine autobiografiche.3 Si tratta di un brano che, come ha sottolineato Cerri, costituisce un momento rilevante nel processo di formazione della biografia e del ritratto letterario presso gli antichi.4 Di più, secondo lo studioso, la pagina del Fedone esce dai canoni abituali della biografia antica e anticipa in qualche modo quelli della biografia e dell’autobiografia moderne: è proprio questa pagina infatti che, per la prima volta nella storia della letteratura greca, “combina perfettamente l’informazione biografica e la coscienza di se stesso”; e ciò già nel iv sec. a. C., precedendo di vari secoli quello che viene considerato il vero inizio dell’autobiografia moderna, cioè il racconto autobiografico della propria ‘conversione’ esposto da S. Agostino.5 Cerri vede dunque il motore del racconto assolutamente innovativo del Fedone nell’esperienza rivoluzionaria della conversione; esperienza che accomuna, con le ovvie differenze, Socrate e Agostino, i due grandi modelli del genere autobiografico.6

Esiste tuttavia un ulteriore precedente che un altro studio di Cerri7 consente di individuare: quello odissiaco. “L’Odissea -afferma Cerri- è sempre stata riguardata, dagli antichi e dai moderni, come la prima biografia e il primo romanzo della storia letteraria. E, dunque, in certo modo lo è stata effettivamente, pur restando all’interno delle rigorose strutture proprie del genere epico”. E ancora, sui Racconti, la sezione del poema contenente la narrazione delle proprie avventure resa da Odisseo al re Alcinoo:

Era necessario che Odisseo stesso narrasse il proprio passato, se si voleva evidenziare in termini epici l’aspetto dinamico e progressivo del personaggio, nonché l’autocoscienza del processo. Odisseo, solo narrando se stesso, poteva divenire il paradigma epico adeguato della saggezza umana che si costruisce nel tempo, attraverso la prassi e l’esperienza.8

Ed ecco qual è il contenuto autobiografico:

[…] le passate avventure amorose <Circe, Calipso, Nausicaa, Penelope> sono state tappe di un itinerario conoscitivo. […] Le incursioni in terre lontane danno sapienza, sono dunque positive, purché però si concludano con il ritorno; ma immaginare di poter stare meglio altrove, grazie ad una situazione di maggiore ricchezza o magari di beatitudine divina, è follia. Un uomo è se stesso compiutamente solo nel suo ambiente familiare e cittadino; il trasferimento definitivo è sradicamento, annullamento dell’identità personale; chi lo scegliesse, non costretto dalle circostanze, ma in vista di una felicità fantomatica, si trasformerebbe davvero in uno dei maiali ben nutriti di Circe.9

Queste parole di Cerri suggeriscono di ipotizzare un’analogia, ancorché imperfetta, fra i due récits, fondata sulla comune natura conoscitiva degli itinerari che essi tracciano. La trama della propria Bildung, articolata e raccontata dal Socrate nell’ultimo giorno della sua vita, lascia trasparire in più punti la traccia dei viaggi di Odisseo. Ma vi si leggono anche altre movenze odissiache: l’insoddisfazione, l’ansia di conoscenza pura che trascina a fare il contrario di quello che sarebbe saggio fare, la crisi dolorosa del dubbio, la tentazione della paura e poi la decisione di resistere e affrontare ogni rischio.

In particolare, alla traversata odissiaca dell’abisso da Ogigia a Scheria, dapprima sulla zattera poi aggrappato ad un tronco e remando con le braccia, sembra rimandare la descrizione fatta da Socrate della svolta in direzione della filosofia, nella sua propria autobiografia, come “seconda navigazione”, δεύτεϱον πλοῦν.10

Entrambe sono foriere di una ‘rinascita’. Infatti, “arrivando a Scheria -afferma Giuseppe Aurelio Privitera- Odisseo viene alla luce una seconda volta: rinasce, si rinnova, inizia una nuova vita. Il lunghissimo viaggio per mare […] è molte cose insieme: è una gestazione, è un rito di passaggio, è un lavacro purificatore, è una rigenerazione. Ed è anche un morire e un risorgere”.11

Seguendo l’ipotesi che la “seconda navigazione” sia l’analogon del viaggio verso Scheria, analizzerò il brano autobiografico alla luce del meccanismo narrativo dei Racconti messo in luce da Cerri, cercandovi le tracce di una “revisione autocritica delle passate avventure amorose viste come tappe di in itinerario conoscitivo”12 (cioè di una ‘prima navigazione’).

L’excursus biografico è molto complesso e stratificato. Il suo scopo narrativo è quello di ricapitolare e passare in rassegna una serie di tappe del proprio itinerario intellettuale, precedenti e propedeutiche alla “seconda navigazione”, una fase che -dal momento della svolta- si protende in avanti, nel presente.13 Nonostante l’attacco -Ἐγὼ γάϱ […] νέος ὢν, “quando ero giovane […]”- faccia prevedere un andamento diacronico e lineare, le varie tappe precedenti alla svolta sono illustrate con un procedimento, per così dire, di amplificazione anulare. Si tratta di una stessa sequenza biografica -iniziale passione per la ricerca scientifica, delusione, svolta- ripresa e approfondita almeno tre volte; inoltre, ciò che complica la comprensione, per descrivere la svolta Socrate si serve di due immagini differenti: una, come si accennava, omerica e l’altra aristofanea.14

Procediamo per gradi. Il racconto inizia dunque con la descrizione di uno stato di entusiasmo giovanile, agitato da quesiti sulla nascita, sulla morte, sull’esistenza e da frequenti radicali cambiamenti di opinione. Socrate si lancia allora nello studio della “storia naturale” (πεϱὶ φύσεως ἱστοϱίη). Una tale indagine, però, non solo non produce i frutti sperati ma addirittura deteriora le conoscenze pregresse, facendo disimparare a Socrate ciò che già conosceva. L’indagine naturalistica, nella visione retrospettiva del Socrate anziano, ha solo seminato ulteriori dubbi senza fornire alcuna risposta. Ecco dunque che è stato necessario un metodo nuovo, messo a punto personalmente: “cerco allora, piuttosto, di combinare da solo alla meglio qualche altro metodo”, τιν’ ἄλλον τϱόπον αὐτὸς εἰϰῇ φύϱω.

Qui si chiude un primo giro della narrazione.

Un primo dato di sapore odissiaco: a seguito delle indagini naturalistiche, Socrate afferma di essersi sentito “completamente accecato, σφόδϱα ἐτυφλώθην”. È, questa dell’accecamento, una metafora che sarà ripresa anche in seguito, ma che già ci dice come l’allontanamento dalla verità coincida con la perdita di una visuale chiara e distinta delle cose. Similmente, Odisseo naufrago, dopo aver scorto i monti feaci, ne viene allontanato da Poseidone, che nasconde la terra e il mare con le nubi. È necessario l’intervento di Atena perché egli, calmatisi i venti, possa nuovamente scorgere la terra “aguzzando la vista”.

La “storia naturale”, si è detto, non solo non fornisce alcuna conoscenza, ma addirittura fa disimparare a Socrate ciò che già sapeva: ἀπέµαθον ϰαὶ ταῦτα ἃ πϱὸ τοῦ ᾤµην εἰδέναι (96c6). Un regresso totale assai difficile da spiegare in termini razionali, ma forse non in termini mitici: la perdita della conoscenza, la dimenticanza, l’essere ricacciati al fondo della sapienza, sono infatti esperienze odissiache per eccellenza e ricapitolano il rischio mortale che l’eroe corre in molte delle tappe del suo viaggio. La vita animalesca è la soglia che Odisseo ha sempre davanti a sé ed è il pericolo che egli concretamente corre in casa della maga Circe.15

La narrazione riprende, ricominciando da un nuovo entusiasmo per un nuovo maestro: a Socrate sembra ad un certo punto di poter fare affidamento su uno strumento del tutto nuovo: i libri. Libri di Anassagora, di cui sente leggere qualche passo che gli sembra convincente. Socrate prende coscienza di ciò che cerca, immaginando di poterlo trovare nei libri di Anassagora; e ciò prima di averli letti, sulla base dei pochi spunti desunti dall’ascolto di brani letti da altri. Si procura così tutti i libri di quell’autore e li legge avidamente. Si fa così acquirente di una merce che si rivelerà inutile, se non dannosa: la lettura, stavolta personale, di Anassagora non gli fornisce le risposte che cercava; però gli chiarisce qual è l’errore che molti compiono, incluso Anassagora stesso: essi chiamano ‘causa’ ciò che non è causa.16

Ma che cosa precisamente cercava il giovane Socrate nei libri di Anassagora? Fra i quesiti posti al libro, uno è molto interessante perché individua una precisa tipologia di fatti: il perché delle azioni umane, non in generale e in astratto ma in concreto e in una situazione specifica e autobiografica. In un corto circuito fra passato e presente, Socrate vuol sapere, e avrebbe voluto sapere prima, il perché di azioni come quella che sta compiendo: perché Socrate in questo momento è seduto qui? Che tipo di azione è l’essere in carcere e in attesa di morire a discutere con gli amici? Qual è la causa di questa azione? Questa domanda,17 sebbene formulata a partire da un contenuto biografico contemporaneo, è esplicativa del tipo di quesiti che animavano l’ansia di conoscenza di Socrate giovane e ricalca tante altre domande che, nei dialoghi platonici, vediamo rivolgere agli interlocutori più disparati: perché Ione si appassiona al solo udire il nome di Omero? Perché Ippocrate vuol farsi allievo di Protagora? Il ‘libro’ risponde chiamando in causa la meccanica che rende possibile il movimento di ossa e tendini e muscoli, l’assunzione di pose, la propagazione e la ricezione di suoni. Tutto il resto (cioè come ciò si armonizzi con il bene e con il meglio, a dispetto delle apparenze) Anassagora non può dirlo, e ciò per due ordini di motivi: da una parte, egli non cerca neppure “quella potenza responsabile del fatto che quelle cose sono state poste nel migliore dei modi” (96c1-2: τὴν δὲ τοῦ ὡς οἷόν τε βέλτιστα αὐτὰ τεθῆναι δύναµιν οὕτω νῦν ϰεῖσθαι); dall’altro, non meno grave, lo strumento ‘libro’ è impotente anche sul fronte dei logoi umani.

Questa sezione ‘anassagorea’ del bios di Socrate sembrerebbe priva di riferimento odissiaco, e dunque di segno opposto alla precedente, in cui il tema del disimparare poteva essere letto in chiave mitica. Tuttavia, un piccolo cenno è meritevole di approfondimento: i molti che sbagliano, dice Socrate, pensano di “potersi imbattere per caso in un Atlante” Ἄτλαντα ἄν ποτε […] ἐξευϱεῖν, che tenga unito il tutto. Atlante è nell’Odissea il padre di Calipso, la cui isola cinta dall’acqua è l’ombelico del mare;18 “un dio -commenta Privitera- che era l’asse del mondo e una figlia che era al centro del mare […] nei punti più stabili, immutabili, immobili”.19 Proprio questa immobilità e immutabilità -essere per sempre senza vecchiaia e senza morte- rischiano di essere l’ultima ed estrema lusinga per Odisseo, nonché quell’ultima terraferma per abbandonare la quale l’eroe è costretto alla navigazione più estrema e pericolosa, su una zattera. I molti per i quali Atlante costituirebbe un’ottima risposta ai propri quesiti sono forse coloro, non Odisseo, che sarebbero stati ben felici di vivere per sempre con Calipso, sposi di una dea, nella sua salda isola al centro del mare. Calipso aveva offerto all’eroe una vita felice e paradisiaca: i piaceri del cibo e dell’amore, l’immortalità e la stabilità, sebbene controbilanciati da uno stato di minorità permanente. Imbattersi in un Atlante, trovare per caso -senza aver cercato- una soluzione meccanicistica, un’asse fisico del mondo che garantisca stabilità e immobilità: può essere questa la posizione da molti auspicata. Ma questa possibilità è insidiosa. Occorre sfuggirla: Odisseo vi preferisce la vita, con i suoi dolori e le sue gioie, il suo personale destino mortale. Non diversamente Socrate.

Subito dopo la menzione di Atlante, dice infatti: “di questa (conoscenza della causa?) poiché io sono stato privato, non fui in grado di trovarla da me, né di impararla da un altro, ho intrapreso una seconda navigazione”. L’esegesi del brano è tormentata.20 Conviene riportarlo per intero (99c1-d2):

τὴν δὲ τοῦ ὡς οἷόν τε βέλτιστα αὐτὰ τεθῆναι δύναµιν οὕτω νῦν ϰεῖσθαι, ταύτην οὔτε ζητοῦσιν οὔτε τινὰ οἴονται δαιµονίαν ἰσχὺν ἔχειν, ἀλλὰ ἡγοῦνται τούτου Ἄτλαντα ἄν ποτε ἰσχυϱότεϱον ϰαὶ ἀθανατώτεϱον ϰαὶ µᾶλλον ἅπαντα συνέχοντα ἐξευϱεῖν, ϰαὶ ὡς ἀληθῶς τὸ ἀγαθὸν ϰαὶ δέον συνδεῖν ϰαὶ συνέχειν οὐδὲν οἴονται. Ἐγὼ µὲν οὖν τῆς τοιαύτης αἰτίας ὅπῃ ποτὲ ἔχει µαθητὴς ὁτουοῦν ἥδιστ’ ἂν γενοίµην· ἐπειδὴ δὲ ταύτης ἐστεϱήθην ϰαὶ οὔτ’ αὐτὸς εὑϱεῖν οὔτε παϱ’ ἄλλου µαθεῖν οἷός τε ἐγενόµην, τὸν δεύτεϱον πλοῦν ἐπὶ τὴν τῆς αἰτίας ζήτησιν ᾗ πεπϱαγµάτευµαι βούλει σοι, ἔφη, ἐπίδειξιν ποιήσωµαι, ὦ Κέβης;

Ma la forza per la quale le cose sono state poste nel migliore dei modi così come ora stanno, né la cercano né ritengono che sia dotata di una forza divina, ma pensano che un giorno potrebbero imbattersi in un Atlante più forte e più immortale di questo, e che meglio di questo tenga insieme tutte le cose, e non credono affatto che sia veramente il bene e il conveniente ciò che lega e tiene insieme le cose. Quanto a me avrei imparato da chiunque come stanno le cose a proposito di tale causa, ma poiché questa possibilità mi fu tolta e non fui in grado né di trovarla da me, né di impararla da un altro, vuoi che ti spieghi, Cebete, la seconda navigazione che ho intrapreso alla ricerca della causa?

Un primo problema riguarda il secondo termine di paragone dei comparativi “più forte” ἰσχυϱότεϱον, “immortale” ἀθανατώτεϱον e “che meglio tenga insieme” µᾶλλον […] συνέχοντα con cui viene descritto Atlante. Poiché l’oggetto della ricerca è sempre designato con sostantivi femminili, l’unica soluzione possibile è che Platone si riferisca al “vero bene” ἀληθῶς τὸ ἀγαθὸν menzionato qualche rigo sotto: l’Atlante degli anassagorei è più forte, più immortale e più capace rispetto al “vero bene”. Socrate introduce poi l’idea dell’apprendere, anzi del farsi µαθητὴς di chiunque pur di apprendere. Ma cosa avrebbe voluto apprendere Socrate? Qualcosa sulla “forza per la quale le cose sono state poste nel migliore dei modi così come ora stanno”? E, in tal caso, a cosa fu dovuto il fallimento? In che senso Socrate ne “fu privato”?

Cominciamo col notare che nell’idea di affidarsi a chiunque pur di ottenere una conoscenza, c’è tutto il giovanile entusiasmo di Socrate e la sua avventatezza, non dissimile da quella di altri giovani dei dialoghi platonici. Di questa conoscenza -comunque ottenuta e pertanto dissimmetrica rispetto alle proprie esigenze e forse addirittura dannosa- Socrate “fu privato”: “mi fu tolto”, “fui spogliato”, ταύτης ἐστεϱήθην dice Socrate. L’idea dell’essere privato, spogliato, è suggestiva. Rammenta l’intervento di Ino Leucotea, in Od., V, 343, che consiglia a Odisseo naufrago di “spogliarsi” delle vesti donategli da Calipso, pesanti zavorre, per muoversi più agevolmente nel mare. Possiamo pensare che Socrate, definendosi “spogliato” di un certo tipo conoscenza, intenda alludere ad un intervento salvifico che lo ha allontanato appena in tempo dalla possibile rovina. Ταύτης pertanto allude ad un certo tipo di conoscenza-abito.21 Calipso offre ad Odisseo una casa, una sposa, un focolare perfetti e immortali, ma di cui egli non sarebbe il proprietario. I doni della dea hanno l’apparenza e la sembianza di casa, sposa e focolare, ma su di essi Odisseo non ha alcuna sovranità: ne viene investito dall’esterno, sono come le vesti donategli e di cui l’eroe ha dovuto poi spogliarsi, ostacoli e impacci per la salvezza.

Come Odisseo, Socrate ha ricevuto la promessa o la possibilità di una tale conoscenza, una conoscenza-abito, ed è sfuggito -è stato spogliato- alle conseguenze nefaste di quel metodo, accogliendo e meditando un suggerimento divino: la conoscenza surrogata, creatrice di minorità e di subalternità è stata evitata con l’aiuto divino e con una riflessione personale. Socrate parla, io penso, del libro e della conoscenza libresca, e delle sue illusioni.22 L’ansia di conoscenza può portare ad affrontare incautamente dei rischi, a “comprare” tutti i libri di un tale di cui si sente leggere un brano che accende speranze. Situazione ‘socratica’ per eccellenza, quest’ultima, spesso descritta da Platone e anche da Senofonte: giovani pieni di ardore che si affidano a sedicenti esperti o a maestri senza ancora sapere di cosa precisamente hanno bisogno, facendosi acquirenti di merci che potrebbero rivelarsi inutili o dannose. Il ‘libro’ -il ‘discorso lungo’ di un Protagora, o il logos di un Lisia di cui si ascolti la lettura ad alta voce- può sedurre, convincere che esso dischiuda le porte della conoscenza. L’aiuto divino che soccorre non può che essere la voce del daimonion, che distoglie, come accade nel Fedro quando Socrate è costretto alla palinodia di un discorso fatto sotto l’influsso della lettura di un libro altrui.

Nel caso specifico, il libro è muto sul (doppio) logos che presiede all’azione di Socrate, che è poi l’intera trama narrativa del Fedone: esso non può spiegare né come possa essere meglio il νῦν ϰεῖσθαι, il giudizio degli Ateniesi su Socrate, né quale dovesse essere la giusta risposta di Socrate alla propria ingiusta condanna, né infine quale potenza sia responsabile del giudizio dello stesso Socrate, che credendo “giusto e bello” attendere serenamente in carcere l’esecuzione, anziché fuggire come Critone gli suggeriva, ha inserito quell’evento in una più ampia e generale disposizione ordinata delle cose. Proprio quel logos, nel Critone, è l’esempio del ‘nuovo metodo’: il logos scelto e sottoposto a verifica. Il libro non può inventariare la varietà delle forme di vita che si presentano e le loro ‘cause’, e non può spiegare, alla luce di evidenze passate, fatti del tutto inediti come l’attuale: essere Socrate in carcere e condannato ingiustamente a morte e averlo egli accettato con serenità.23

Un secondo problema è dato dai due infiniti “trovare”, εὑϱεῖν, e “imparare”, µαθεῖν, che sembrano delineare un programma di ricerca in più fasi, tutte fallimentari. In tal caso il cambio di navigazione implicherebbe un diverso metodo rispetto a quello indicato dal “trovare” e “imparare”. Mi sembra invece che sia decisiva, per una corretta esegesi, la proposizione che regge i due infiniti: οἷός τε ἐγενόµην: “io (non) fui in grado”. Il deficit riguarda, nella prima navigazione, il soggetto che naviga, non diversamente da quanto accade ad Odisseo, incapace fino all’intervento di Zeus, di trovare da solo o di apprendere da altri la strada di casa. Significativamente, l’espressione è generica e non precisa da cosa dipenda quell’incapacità. Nel caso di Odisseo, accanto all’incrociarsi di veti e favori divini, gioca anche -fino alla sosta da Calipso- una carenza di governo dell’eroe, sia di se stesso e delle proprie debolezze, che dei compagni e della nave.24

Dopo la menzione di Atlante, Socrate ricomincia ancora, descrivendo sempre lo stesso processo psicologico, ma con una nuova metafora, quella dell’osservazione del sole. Si tratta, ritengo, di un rimando alle Nuvole di Aristofane. La commedia è citata direttamente nel Fedone e numerosi sono i richiami che consentono di vedere in essa uno dei bersagli polemici del dialogo.25 Già nel riferimento ad Atlante della sezione precedente Ἄτλαντα ἄν ποτε ἰσχυϱότεϱον ϰαὶ ἀθανατώτεϱον ϰαὶ µᾶλλον ἅπαντα συνέχοντα) si può leggere l’eco dell’invocazione ad Aere del Socrate delle Nuvole: ὦ δέσποτ’ ἄναξ, ἀµέτϱητ’ Ἀήϱ, ὃς ἔχεις τὴν γῆν µετέωϱον, “O possente signore, incommensurabile Aere che in alto reggi la terra […]”.26 I “molti” che indagano i fenomeni celesti, cercandovi soluzioni meccanicistiche, sono simili al Socrate meteorosofista delle Nuvole.

Ancora più interessante è ciò che segue. L’errore dei molti, dice Socrate, è simile a quello di chi fissa il sole direttamente, durante un’eclissi, e si rovina la vista. Quanto a lui:

poiché ero stanco di osservare la realtà, mi parve di dover stare attento che non mi accadesse ciò che capita a coloro che guardano e indagano il sole durante un’eclissi; ad alcuni infatti si rovinano gli occhi […] e temetti di diventare cieco nell’anima, fissando le cose con gli occhi e cercando di coglierle mediante ciascuno dei sensi.27

La menzione dell’osservazione del sole rimanda di certo al Socrate comico, osservatore del sole dall’alto di una cesta sospesa; ma, nel Fedone, Socrate dice di aver temuto, a causa di quelle osservazioni, di perdere la vista, cosa che invece non turbava minimamente il Socrate comico. Tuttavia l’idea del danno oculare a seguito di prolungate osservazioni del sole è presente nelle Nuvole e a soffrirne sono proprio le dee. La spiegazione di ciò sta forse nel fatto che νεφέλη, oltre a indicare la ‘nuvola’, può anche significare la ‘cataratta’ o ‘nebula’,28 un termine usato per indicare la degenerazione della vista che colpisce chi osserva l’eclissi solare senza proteggere gli occhi. Nella commedia di Aristofane le stesse Nuvole sono osservatrici del sole: le dee chiamate da Socrate, al momento di entrare in scena, evocano “l’occhio instancabile dell’Etere [che] risplende con saettanti barbagli” e, per “vedere” la terra con il loro “occhio telescopico”, τηλεσϰόπῳ ὄµµατι (Nu., 290), fanno uno strano gesto: scuotono via un “nuvolo piovoso” νέφος ὄµβϱιον dalla loro “forma immortale” ἀθανάτας ἰδέας, cioè dal volto.29 Lettore delle Nuvole e conoscitore di fenomeni e lessico della visione; Platone potrebbe aver interpretato il νέφος che ostacola la vista delle Nuvole, immerse nei barbagli dell’astro solare, come νεφέλη, o meglio νεφέλιον in senso medico, cioè come cataratta, ‘opacità dell’occhio’.

Come le stravaganti divinità della commedia, i fisici, fissando troppo direttamente il sole, invece di osservarne l’immagine riflessa nell’acqua, hanno visto ‘nuvole’: le loro balzane teorie sono pertanto solo il prodotto di una vista danneggiata.

La zattera di Simmia

Come l’Odisseo dei Racconti, durante la prima navigazione Socrate ha affrontato tappe in cui ha rischiato di perdere la conoscenza e tappe in cui ha ricevuto doni conoscitivi infidi e pericolosi. Il tema unificante di queste esperienze che precedono la ‘svolta’ è la passività, la non padronanza di sé, sia come esito della sopraffazione altrui non correttamente prevista ed evitata, sia come cedevolezza rispetto alle seduzioni. Non il metodo in sé, né l’oggetto della ricerca sono sbagliati nella prima navigazione, dunque non il “cercare da soli” o “l’imparare da altri”,30 ma la disposizione passiva del soggetto che non sa difendersi dalle lusinghe o che si attende di essere ‘ri-vestito’ di conoscenza. Dunque, l’intero passo allude al fallimento della prima navigazione, in cui la ricerca ha un oggetto ancora necessariamente impreciso e nebuloso (il perché delle azioni): solo la trasformazione del soggetto potrà chiarire l’esistenza di un vero bene e la sua non coincidenza con l’Atlante dei fisici. Un fallimento non mortale tuttavia, per la provvidenziale e tempestiva spoliazione dalle false credenze.

La svolta è definita in due riprese: dapprima, al termine della sequenza autobiografica sul tema del “disimparare”, Socrate dice: “ma qualche altro metodo io stesso alla meglio me lo vado combinando” ἀλλά τιν’ ἄλλον τϱόπον αὐτὸς εἰϰῇ φύϱω.31 Una definizione curiosa, specialmente per la scelta del verbo, ma di cui va sottolineato l’impegno in prima persona di Socrate; poco oltre, con più ampiezza:

ἔδοξε δή µοι χϱῆναι εἰς τοὺς λόγους ϰαταφυγόντα ἐν ἐϰείνοις σϰοπεῖν τῶν ὄντων τὴν ἀλήθειαν. ταύτῃ γε ὥϱµησα, ϰαὶ ὑποθέµενος ἑϰάστοτε λόγον ὃν ἂν ϰϱίνω ἐϱϱωµενέστατον εἶναι, ἃ µὲν ἄν µοι δοϰῇ τούτῳ συµφωνεῖν τίθηµι ὡς ἀληθῆ ὄντα, […], ἃ δ’ ἂν µή, ὡς οὐϰ ἀληθῆ.32

Mi parve di dover trovare rifugio nei logoi e di dover indagare per mezzo loro la verità delle cose. Mi mossi per questa via, e mettendo in ciascun caso come fondamento il logos che giudicassi di volta in volta più forte, le cose che mi parevano in sintonia con esso le consideravo come vere […] quelle che invece non si accordavano, le consideravo non vere.

I due passi sono molto controversi: anzitutto si tratta di capire cosa significhi precisamente λόγοι in questo contesto, se significhi “idee” o semplicemente “ragionamenti” e, in questo secondo caso, se la svolta riguardi il metodo o l’oggetto. Ritengo che anche per i logoi valga il discorso già fatto: il rifugiarsi in essi non indica di per sé un cambiamento di metodo, perché il modo in cui si usa il logos dipende dalla salute del soggetto che se ne serve, come Socrate ha già detto in relazione al problema della misologia. L’altro problema è quello dell’ “ipotesi”: che cosa significa ὑποθέµενος? In cosa consiste il metodo ipotetico?

Ritengo che con la ‘seconda navigazione’33 faccia la sua comparsa un diverso soggetto, il quale rifiutando il soggiorno nell’isola della figlia di Atlante, affronta nuovamente la navigazione, ma con una dotazione nuova. Tale novità non consiste nella “discorsività” (quelli dei fisici e di Anassagora erano pure ‘discorsi’, inevitabilmente; quelli di Anassagora scritti, per giunta), ma nel controllo del soggetto sul discorso. Non più il farsi allievo di chiunque, né balzane teorie frutto di sensi danneggiati da una relazione solipsistica col proprio oggetto di ricerca, né la necessità di essere salvato in extremis per l’inadeguatezza del proprio “abito”.

Come si raggiunge questa diversa solidità del discorso umano? E dunque in cosa consiste la novità della seconda navigazione? Mi pare che il metodo più sicuro sia quello di cercare la risposta nella prassi dialogica dello stesso Socrate, e proprio nel Fedone. Il dialogo, a ben guardare, fornisce due risposte: una teorica e descrittiva, in sede autobiografica, una pratica e costruttiva, in sede biografica. Occorre dunque tornare al dialogo e cercarvi, nella drammaturgia, l’esemplificazione della “seconda navigazione”, guidati, ancora, dal modello odissiaco.

Temi odissiaci sono citati dai protagonisti diffusamente;34 ma sottintesa all’intero discorso di Socrate è (ancor più chiaramente che nell’excursus autobiografico) la reminescenza del viaggio di Odisseo da Ogigia a Scheria. Esso -secondo Silvia Montiglio- “provides a subtext for Simmias’ comment on life’s journey: Odysseus coping with the storm sent by Poseidon”.35 Nell’Odissea, il soggiorno a Ogigia è anche la ‘cerniera’ fra i Racconti e il resto del poema, fra biografia e autobiografia: l’approdo all’isola della dea è l’ultimo episodio raccontato (succintamente) dal protagonista ed il primo narrato (diffusamente) da Omero. Il Fedone segue questo schema e la fine del racconto autobiografico, con il naufragio delle speranze riposte nella fisica e in Anassagora e con la decisione di approntare personalmente un nuovo equipaggiamento per la sua seconda navigazione, si salda con l’inizio del dialogo che vede il filosofo affrontare il mare dei logoi.

Il riferimento occulto al soggiorno di Odisseo presso la ninfa, consente di spiegare alcune incongruenze: in 62b4, Socrate fa menzione di un ‘certo discorso’ che si pronuncia nei misteri secondo il quale “noi uomini siamo come in una sorta di cittadella fortificata (φϱουϱά) dalla quale non ci si può liberare né fuggire”. Questo concetto sembra a Socrate profondo e non facile da comprendere; ed egli lo associa ad un’altra idea: che gli dei si prendono cura degli uomini come di un loro possesso e non consentono che, uccidendosi, essi sfuggano a questa condizione senza un loro esplicito comando. Il tono elevato e la prosa arcaica e poetica con cui Platone espone questo pensiero di Socrate rendono certo un riferimento poetico.36 L’idea di una divinità che costringe un uomo nella propria dimora, non vuole privarsene e non lo lascia andar via, a meno che una (altra) divinità non invii un comando specifico, sembra ricalcare la protesta di Calipso ad Ermes all’inizio del V libro dell’Odissea. La dea non vorrebbe privarsi di Odisseo e deve però cedere quando il dio le porta l’ordine di Zeus: ad una costrizione divina che limita risponde una costrizione divina che libera. Ella rivendica di averlo “accolto e nutrito”, ma è disposta tuttavia a cedere e a “mandarlo”, come Ermes le impone. A Odisseo, piangente sulla riva del mare, infine dice: “non rovinarti la vita! Ti lascerò andare”.37 Fuggire o liberarsi da Calipso, senza l’ordine veicolato da Ermes, sarebbe stato impossibile. L’abisso fortifica Ogigia e la rende inespugnabile.38

Ed ecco da cosa ci si allontana, morendo: da una sorveglianza e da una servitù, dice Socrate; ma anche da una sgradita vicinanza ai piaceri, alle bevande e ai cibi, agli aphrodisia, alle vesti e alle calzature.39 Negli stessi identici termini è descritto il soggiorno di Odisseo presso Calipso: la dea lo guida per l’isola, sempre muovendosi per prima, gli offre “ogni cibo da mangiare e da bere”, il piacere dell’amore fisico, lo “copre di vesti odorose”.40 Ma tanto Odisseo quanto il filosofo desiderano altro: la saggia (πεϱίφϱων) Penelope, Odisseo; il possesso della verità e della sapienza (φϱονήσεως ϰτῆσιν), Socrate.41

Il riferimento odissiaco al soggiorno presso la ninfa consente di spiegare l’apparente ambivalenza di sentimenti verso ciò che il filosofo lascia morendo. L’essere in vita oggetto della benevola cura da parte degli dei e al contempo l’essere prigionieri di essi come dei piaceri del corpo. Questa apparente contraddizione si chiarisce se la si pensa sullo sfondo della condizione di minorità dell’eroe presso Calipso e della sua risoluzione ad affrontare il rischio della navigazione sul vasto abisso per tornare a casa, abbandonando le lusinghe della dea.

Non sfugge a Simmia e a Cebete la contraddizione in cui Socrate sembra incorso: perché uomini dotati di senno si separerebbero da padroni valenti quali sono gli dei? Perché sorretto -risponde Socrate- dalla speranza di incontrare altri dei sapienti e buoni, e altri uomini migliori dei vivi.42 Nulla di ciò avrebbe senso se ciò che precede la morte-fuga non avesse le sembianze della figlia di Atlante e della sua isola remota. A chi pratica la filosofia non dispiace morire, egli crede che ci sia per lui un beneficio nella morte e la affronta senza paura. Identica disposizione d’animo in Odisseo: egli è disposto a rinunciare ai benefici offerti da Calipso per quelli che si aspetta dal suo “giorno del ritorno” e ad affrontare i pericoli della navigazione sull’abisso e del naufragio, senza avere paura di soffrire durante la traversata. Ulteriore notazione odissiaca: la sapienza è l’oggetto di amore per il filosofo, il quale nutre la speranza di trovarla allo stesso modo in cui molti affronterebbero l’Ade pur di ricongiungersi con “la moglie e il figlio e gli affetti umani”. Per costui sarebbe assurdo temere la morte.43

Il tema della paura della sofferenza è di grande importanza: solo chi non ha paura di affrontare la sofferenza e il pericolo iniziali può godere di benefici futuri. Così è per Odisseo (“saprò sopportare, perché ho un animo paziente nel petto: / sventure ne ho patite e tante sofferte / tra le onde e in guerra: sia con esse anche questa”44) così è per Socrate e per il filosofo in genere, per il quale la soddisfazione del suo desiderio di sapienza non può che giungere dopo aver affrontato coraggiosamente la morte. L’anima infatti non volerà via in un soffio, neppure “quando capiti di morire nel bel mezzo di una bufera”.45

Senonché “morire” non è accadimento puntuale, istantaneo. Non si spiegherebbe altrimenti la seconda navigazione: se l’abbandono dell’isola di Calipso coincidesse con la morte si chiuderebbe ogni spazio per ulteriori imprese eroiche del logos e del soggetto suo portatore. Ed ecco la soluzione: morire è per il filosofo azione continuativa, scelta di ogni giorno, esercizio in vista dell’evento puntuale che, quando giungerà, non sarà nulla di nuovo né di spaventoso.

La bufera è il trait d’union fra eroe omerico e filosofo:46 Odisseo la affronta spogliandosi di tutto ciò che lo appesantisce -i vestiti datigli da Calipso e infine la stessa zattera che egli stesso si è costruito- e procedendo da ultimo a nuoto. Il corpo -dice analogamente Socrate- è un intralcio nella ricerca. È pesante e visibile: appesantisce l’anima e la trascina lontano dall’invisibile.47 Come anche la vista e l’udito, che possono ingannare o comunque disturbare: il timore di essere ingannato dal discorso altrui -il consiglio di Ino Leucotea- induce Odisseo a esitare, a riflettere sul da farsi in uno dei noti dialoghi dell’eroe col suo thymòs.48

Si era detto di una nuova dotazione con cui Socrate riteneva di dover affrontare la seconda navigazione, cioè -giova ribadirlo- la vita di chi si esercita alla morte. Questa dotazione è un discorso, un insieme di discorsi che faccia da schermo fra la verità inattingibile per via diretta (pena la cecità) e lo sguardo del filosofo, debole e imperfetto. La metafora, in sede autobiografica, della “seconda navigazione” ha il suo pendant, in sede biografica, nella metafora della zattera, illustrata da Simmia. Abbiamo bisogno, dice ad un certo punto Simmia, di una dottrina umana come di una zattera per navigare nella vita, dal momento che non disponiamo di un’imbarcazione più sicura, come una rivelazione divina.

δεῖν γὰϱ πεϱὶ αὐτὰ ἕν γέ τι τούτων διαπϱάξασθαι, ἢ µαθεῖν ὅπῃ ἔχει ἢ εὑϱεῖν ἤ, εἰ ταῦτα ἀδύνατον, τὸν γοῦν βέλτιστον τῶν ἀνθϱωπίνων λόγων λαβόντα ϰαὶ δυσεξελεγϰτότατον, ἐπὶ τούτου ὀχούµενον ὥσπεϱ ἐπὶ σχεδίας ϰινδυνεύοντα διαπλεῦσαι τὸν βίον, εἰ µή τις δύναιτο ἀσφαλέστεϱον ϰαὶ ἀϰινδυνότεϱον ἐπὶ βεβαιοτέϱου ὀχήµατος, [ἢ] λόγου θείου τινός, διαποϱευθῆναι.

Quando si ha a che fare con questi argomenti bisogna praticare una di queste risoluzioni: o imparare da altri come stanno, o scoprirlo da sè; oppure, se queste alternative sono impossibili, prendere allora il migliore fra i ragionamenti umani, e il più inconfutabile, e servendosene come una zattera, fare la traversata della vita correndo il rischio, a meno che non si possa navigare servendosi di un mezzo più sicuro e meno pericoloso su una imbarcazione più solida, cioè su un ragionamento divino.49

Il riferimento è verosimilmente alla zattera di Odisseo, di cui è data minuta descrizione in Od., V, 233-260, e allo stesso contesto nautico di V, 54 rimanda pure l’uso del verbo ὀχέω. Ciò implica che, in assenza di rivelazione divina, occorre una metis di tipo odissiaco con la quale costruire il proprio logos. Questo, se si svolge fino in fondo la metafora, è: 1) fabbricato da sé con i mezzi di cui si dispone; 2) stabile perché costruito connettendo insieme fra loro i diversi elementi. La zattera di Odisseo infatti è fatta di grossi tronchi tenuti insieme con “caviglie e chiavarde”, γόµφοισιν δ’ ἄϱα τήν γε ϰαὶ ἁϱµονίῃσιν.50

Il discorso di Simmia è collocato in una posizione davvero strategica, di cui si dirà in seguito. Intanto osserviamo che vi è una precisa corrispondenza fra quanto dice Simmia e quanto, sul piano argomentativo e drammaturgico, è già accaduto e accadrà nel dialogo. Dopo la sezione iniziale, in cui Socrate ha mostrato, per così dire, la nascita del soggetto dalla meditazione sulla morte, nella parte successiva del dialogo -prima del discorso di Simmia- viene fornita una esemplificazione di ciò che significa “seconda navigazione” o “servirsi di un logos umano come di una zattera”.

Vediamo in che modo, lasciandoci guidare dalla metafora del logos-zattera e dalle peripezie di Odisseo. Il primo obiettivo per il nuovo soggetto -il soggetto cioè della “seconda navigazione” e pilota della sua zattera-, dopo la fatica compiuta per diventarlo rinunciando alle seduzioni della passività, è rimanere durevomente tale. Socrate, com’è noto, si serve di due argomenti: a Cebete, che ha portato la discussione su questo binario, si rivolge la prima dimostrazione dell’immortalità dell’anima: il divenire fra contrari; a Simmia, l’argomento della reminiscenza. Il soggetto responsabile degli atti di conoscenza, cioè l’anima, preesiste alla vita presente. La quale vita presente è responsabile dello scarto fra euporia ed aporia, cioè delle difficoltà in cui si dibatte il filosofo e delle speranze che ha di venirne a capo. Si tratta di essere consapevoli -da filosofi- di quale sia l’origine metafisica del difficile equilibrio costituito dalla vita fisica.

Scelti due logoi umani fra i migliori e i più inconfutabili per illustrare le attività e la solidità del soggetto che conosce, è necessario renderli solidi e sicuri: ritengo che questo consolidamento si colga mediante l’accordo fra gli interlocutori. Socrate cerca e ottiene l’accordo di Simmia in 76e-77a: questo accordo è dunque la pietra angolare del discorso vero: “il logos -dice Simmia- ha trovato proprio un bel riparo”. La zattera è il logos costruito, letteralmente, da Socrate e da Simmia, dai loro discorsi armonizzati e ben connessi l’uno all’altro, sia da un punto di vista del contenuto sia dal punto di vista della forma.

Questo accordo fra logoi, come zattera, deve ora reggere agli urti della navigazione, alle bufere e alle seduzioni esterne, ma anche alla paura di chi lo ha costruito.

Sia Simmia che Cebete mostrano di temere che un simile accordo, cui Simmia e Socrate sono pervenuti esponendosi l’un l’altro, non sia durevole: ed in effetti è necessario un continuo esercizio affinché il soggetto rimanga tale, non ricada mai in condizione di minorità. Questa possibilità è sempre presente e occorre scongiurarla ogni giorno. Simmia e Cebete sanno in realtà che il fanciullino che è in loro necessita, per persuadersi a diventare durevolmente soggetto, di un esempio; di guardare a qualcuno che non abbia paura, che abbia coscienza di sé, e temono dunque che, morto Socrate, diventerà difficile per loro tenere sotto controllo quella parte infantile (smemorata e paurosa) di sé. Il discorso sul soggetto, essi temono, morto Socrate che lo esemplifica, andrà perso: senza l’esempio del maestro, essi non saranno in grado di essere durevolmente soggetti.

Occorre -risponde loro Socrate- che procedano da soli, aiutandosi l’un l’altro; che ciascuno svolga nei confronti dell’altro la funzione che Socrate ha svolto nei confronti di Simmia (non ancora di Cebete, con cui non c’è stato alcun accordo). Si vede bene come il timore sia che il contenuto del discorso rischi di venir meno al venir meno delle condizioni -biografiche, esistenziali- che lo hanno prodotto. Se Socrate muore, rischia di morire anche ciò che Simmia ha appreso da lui. Per scongiurare questo timore, Socrate ricorre ad un’argomentazione spesso parsa debole agli studiosi, rispetto alle precedenti: l’argomento dell’affinità. Esso ricapitola i temi della seconda apologia, chiarendo quale sia la natura -immateriale, invisibile, immobile, semplice- che accomuna il soggetto che pensa (l’anima) e la realtà intellegibile (Odisseo e il comignolo di casa sua) distinguendoli dalla realtà fisica, visibile, materiale (Calipso e la sua isola). Mutamenti della realtà materiale, quali l’imminente morte di Socrate, non possono turbare il soggetto che pensa: questo il senso, a mio avviso, dell’argomentazione.51

Ma il discorso corre ulteriori rischi: non è solo la paura della morte di Socrate a minacciarlo; esistono infatti seduzioni non solo nell’isola di Calipso e nella vita quotidiana, ma anche nella piccola comunità di filosofi nel carcere. Cosa può accadere all’accordo raggiunto? Al discorso umano giudicato più forte?

Dopo la lunga dimostrazione di Socrate, sulla comunità cala un denso silenzio: ciascuno, anche Socrate, riflette su ciò che è stato appena detto; ma Simmia e Cebete discutono fra loro a bassa voce. Essi non sono persuasi e hanno delle perplessità: è Simmia a farsene portavoce (ed è in questo discorso che si trova la metafora della zattera) e ad esprimere per primo il suo dubbio; tocca poi a Cebete esporre la sua obiezione. Socrate ha nettamente separato la realtà sensibile da quella intellegibile, ed è questa separazione che pare creare ostacoli insormontabili: a Simmia piacerebbe dare credito al logos che pone l’anima “a cavallo” fra le due realtà, intendendola come armonia; Cebete si chiede come siano possibili -fisicamente- le relazioni fra i due mondi, come l’anima sia sottoposta a generazione e corruzione.

Dal punto di vista dottrinale, queste obiezioni non sono irresistibili. La parte che segue, pur essendo importante da un punto di vista dottrinale, è molto più importante dal punto di vista paradigmatico. Si genera, dopo l’esposizione delle perplessità dei due, un clima di pesante sfiducia nell’uditorio, e Fedone interrompe il suo racconto per interloquire direttamente con Echecrate, anche lui toccato dalla grave ipoteca posta sul discorso di Socrate e ansioso di sapere come il maestro fosse riuscito a far progredire la discussione evitando il rischio della delusione e della sfiducia. Socrate dunque, dapprima, difende la possibilità stessa di giungere a dei risultati fidando nel logos e fidando nella possibilità di riconoscere, fra altri logoi che si presentano, quello vero e saldo e tenersi ad esso.52 Si tratta di essere in salute e coraggiosi -dice Socrate- perché è solo il nostro stato di salute precario e la nostra mancanza di competenza che ci fa apparire, come ora agli astanti, un discorso prima in un modo poi in un altro e ci fa scegliere il discorso che appaga momentaneamente il nostro desiderio rispetto a quello che presenta una difficoltà ed una sofferenza iniziale. Oppure ci fa volgere verso un discorso ingannevole. Il mare è popolato da sirene e disseminato di isole paradisiache, popoli cannibali e dee dalla verga incantata.

Come distinguere e tenere saldo il discorso vero, che Socrate ha costruito a tentoni col consenso di Simmia, da altri discorsi attraenti? Non in astratto e in teoria, ma concretamente hic et nunc? Come fare in modo che Simmia e Cebete si tengano stretti al discorso appena fatto, come all’albero della zattera, e non lo abbandonino anzitempo?

L’obiezione di Simmia rivela lo smarrimento dell’ascoltatore che può essere ingannato dall’aspetto verosimile e conveniente di un’argomentazione. Socrate gli indica in concreto come resistere a questo inganno: egli ritorna sull’ultimo argomento al quale Simmia aveva dato l’assenso, poi gli mostra che il discorso che ora stanno valutando (l’anima come armonia) non è in sintonia con quello (che cioè occorre avere il controllo del corpo e temperarne gli eccessi; per inciso, Odisseo è il modello di questa azione di controllo e compressione delle passioni). Simmia, dimostrandosi giudice in salute, usa le conclusioni affermative del primo discorso, che egli ha accettato, come metro per giudicare la fondatezza del secondo. Ecco ciò che può voler dire, concretamente, “trovare rifugio nei logoi e indagare per mezzo loro la verità delle cose” e più specificamente il controverso metodo ipotetico descritto da Socrate: “mettendo come fondamento il logos che giudicassi di volta in volta più forte, le cose che mi parevano in sintonia con esso le consideravo come vere […] quelle che invece non si accordavano, le consideravo non vere”.53 “Prima -dice Socrate- […] ci sono la lira, le corde e le note, che ancora non sono armonizzate, mentre l’armonia di tutte queste cose si compone per ultima, ed è la prima a perire”.54 L’ultimo ragionamento deve pertanto essere armonizzato ed intonato con il precedente. Sebbene Socrate usi il termine nel suo senso più comune, quello musicale, non si può non sentire in tutto il passo l’eco della costruzione omerica della zattera, tenuta insieme con “caviglie e chiavarde”, γόµφοισιν δ’ ἄϱα τήν γε ϰαὶ ἁϱµονίῃσιν, dove ἁϱµονία è la giuntura che assicura il corretto incastro delle tavole di legno che costituiscono l’ossatura dell’imbarcazione.

Simmia deve anzitutto disporre di discorsi fra loro ben connessi se vuole che l’accordo con Socrate regga all’urto della vita: per fare ciò serve non un discorso sull’armonia ma una pratica dell’armonia.

Acrobatica del discorso vero

Riflettiamo su quanto abbiamo osservato. Più che in altri dialoghi, nel Fedone ciò che accade e ciò di cui si parla -la drammaturgia e la dottrina- sono legati molto strettamente, ed anzi l’esito della dimostrazione dottrinale e il dispiegarsi dei fatti, fino all’epilogo finale, sono interdipendenti:55 ciò che Socrate fa è la migliore dimostrazione della serietà del suo impegno filosofico e di ciò in cui crede; ma per agire in un certo modo egli ha bisogno di sapere e di conoscere, di possedere un “discorso”. C’è un percorso dalla vita alla dottrina, per cui occorre elaborare e sistematizzare l’esperienza del processo, della condanna e della prigionia condensandola in discorsi; e c’è un percorso dalla dottrina alla vita, per cui l’elaborazione concettuale fornisce la base per orientare i comportamenti nel frangente più difficile. Così, quando Socrate parla di anima e di immortalità, egli parla anche di ciò che sta per accadere in quel luogo e in presenza di quegli astanti, e ciò che dice ha impatto immediato sulle emozioni dei suoi ascoltatori e sue. Di più, se le sue argomentazioni risulteranno fondate, il suo atteggiamento di serenità e coraggio avrà un senso;56 altrimenti egli potrebbe sembrare uno sciocco, un uomo senza senno che lascia a cuor leggero amici e vita:57 la dottrina indirizza e riempie di senso la vita, e la vita dimostra la validità della dottrina che la plasma.

I logoi-rifugio di cui si parla in 99e e 100a sono pertanto, a mio avviso, gli stessi logoi che Echecrate vuol conoscere quando chiede a Fedone quali fossero stati i discorsi fatti nel giorno della morte di Socrate.58 È dunque più importante che mai, per Socrate, convincere gli amici della serietà e fondatezza dei propri argomenti e persuaderli che quello che vedono non è altro che il risvolto biografico di una ricerca filosofica, nata anni prima da una impasse biografica. Nel logos, oggetto di pensiero e di rappresentazione drammatica, i due aspetti convergono: per questo le peripezie del logos, mentre costruiscono una dottrina, al contempo delineano una drammaturgia.

Questa doppia costruzione, faticosamente messa in piedi, è motivo di meraviglia e di stupore, e anche di trepidazione, sia da parte della piccola comunità riunita a conversare con Socrate nella prigione, che di quella degli ascoltatori di Fedone, testimone e narratore della vicenda. L’aspetto mirabile delle azioni di Socrate nel suo ultimo giorno e il suo effetto sugli ascoltatori è messo costantemente in rilievo da Fedone: “davvero mirabili furono le cose che mi capitarono quando gli fui accanto”;59 egli si meraviglia della serenità di Socrate, del piacere con cui accoglie le obiezioni e i dubbi dei giovani che lo ascoltano, dell’acutezza con cui si accorge delle loro difficoltà.60

Ma gli astanti osservano meravigliati anche il procedere, talora rischioso, dell’argomentazione di Socrate: essa, inizialmente accolta con entusiasmo e adesione incondizionata da Simmia e Cebete, incontra momenti di difficoltà, in cui la dimostrazione diventa prima “sufficiente”, poi a tratti incompleta e non risolutrice e addirittura insoddisfacente; tanto da gettare ad un certo punto tutti i presenti nella più profonda costernazione e sfiducia.61 Ma ecco poi Socrate “riacchiappare il discorso” e “portargli soccorso” in un momento di difficoltà argomentativa62 e infine fare ritornare in vita il ragionamento che pareva morto.63 Nel dialogo, cioè nel presente fuoruscito dal tempo giovanile dell’excursus autobiografico e già proiettato nell’incerto futuro dell’aldilà, Socrate offre dimostrazione di come si costruisca il discorso vero, impresa non esente da eroismo e da rischio. Ed in effetti, dice Socrate, argomentando, si corrono dei rischi e ci si deve guardare da pericoli; occorre essere coraggiosi, impegnarsi e prepararsi per affrontare il logos e sperare di farcela.64

L’insistenza sulla τέχνη e sulle caratteristiche personali -coraggio, salute, cura della verità- necessarie per affrontare correttamente il logos è molto significativa: questa è la dotazione con cui è possibile affrontare la seconda navigazione. E così, ad un certo punto, dopo alcune traversie, il discorso di Socrate appare finalmente evidente “anche a chi abbia scarso intelletto”;65 ma ecco nuovi ostacoli e occorre di nuovo tornare su certi argomenti e ridefinirli, se si è capaci,66 di nuovo, e su altre cose riflettere e così via, finché l’argomentazione non sfuma nel mythologein finale.

La performance che Socrate offre nel suo ultimo giorno è una prova difficilissima, un’impresa odissiaca, un esercizio quasi acrobatico in cui occorre stare attenti a non cadere, tenersi stretti ad un logos, il quale può sfuggire, rischiare di morire, aver bisogno di aiuto, essere riacciuffato, tolto, tenuto saldamente (e ancora scelto, rifiutato, armonizzato, essere grande, affascinante etc.). Se le peripezie del logos sono una metafora delle peripezie del suo portatore -fra i discorsi e le persone, dice infatti Socrate, c’è una certa analogia67- più specificamente queste peripezie riguardano una fuga dal mare e per mare, rocambolesca, piena di insidie e di pericoli, per cui chiamare a raccolta ogni risorsa: capacità argomentative, persuasione, previsione, coraggio: qualità odissiache per eccellenza.

Il dono di Cebete

Torniamo allo svolgimento dell’argomentazione. Simmia ha armonizzato i suoi propri logoi come Socrate aveva fatto col suo e quello di Simmia. L’obiezione di Cebete sembra più difficile e pericolosa: egli non è distratto e sviato da altri discorsi ingannevoli -sirene suadenti- che gli fanno dimenticare il primo, su cui il suo accordo non era del resto pieno, ma vuole portare l’indagine su un campo diverso, vuole cioè indagare la corruzione e la generazione, passare dall’indagine socratica (perché bisogna accettare la condanna? come bisogna comportarsi di fronte alla morte? che cosa essa può riservare al filosofo?) ad un’indagine di tipo scientifico (che cos’è la corruzione? e la generazione?). Occorre per lui un tipo diverso di risposta. Questa risposta è il logos autobiografico.

Riflettiamo su qual era lo scopo dei Racconti nell’Odissea. Con essi, Odisseo rivelava finalmente la propria identità ad Alcinoo; pur senza conoscerne il nome, tuttavia, Alcinoo aveva già avuto modo di osservare le qualità dell’eroe durante il soggiorno nel suo palazzo. Al termine di quei Racconti, comunque, il re si era persuaso a rinunciare all’idea di trattenere Odisseo come genero a Scheria e ad allestire un accompagnamento per l’ultimo tratto del viaggio del suo ospite verso Itaca. Inutile rammentare che, senza l’aiuto di Alcinoo, Odisseo non avrebbe mai potuto raggiungere la sua isola.

Credo che l’excursus autobiografico del Fedone abbia una funzione analoga: Socrate chiede implicitamente a Cebete di rinunciare a portare il logos sull’anima su un terreno scientifico e di accompagnarlo nell’ultimo tratto della dimostrazione, lungo la via che Socrate ha scelto.68 Si tratta del metodo già sperimentato, il rinforzamento del logos mediante l’accordo fra due interlocutori e l’utilizzazione del logos rinforzato come criterio di verità, ma di un logos nuovo,69 sulle idee (“e comincio da quelle, ponendo come ipotesi che ci sia un bello in sé, un buono in sé”), e sulla partecipazione come relazione che sussiste fra le idee e le cose che esistono (“questa sia bella perché partecipa di quel bello”). Cebete sceglie di seguire Socrate su questa strada e dà il suo assenso al logos. Ma che valore può avere un accordo raggiunto in tal modo? Con Cebete che “concede l’ipotesi”? Un valore precario, che solo il risultato potrà rinforzare.70 Dal risultato -dice Socrate- sarà chiaro che l’ipotesi era degna di assenso.

Vediamo come funziona in concreto la “partecipazione”:71 Cebete ha implicitamente formulato una domanda: “perché le cose si generano e si corrompono?” Socrate parte invece da una domanda differente: perché la cosa x è bella? Una risposta errata a tale domanda è: “per il colore”.

Analogamente si va componendo, nel corso dell’argomentazione, una serie di domande e di risposte errate, che riconduce al quesito di Cebete:

La risposta errata “per la testa” ad una ipotetica domanda sulla grandezza, del tipo: “perché Simmia supera Socrate?” produrrebbe un enunciato errato: “Simmia supera Socrate”. Ma se vi introduciamo l’idea di grandezza, esso diventa: “Simmia possiede la grandezza; Socrate possiede piccolezza in rapporto alla grandezza di Simmia”.

Ma a cosa serve questa procedura, che sembra in verità alquanto banale? Serve ad introdurre il successivo e decisivo argomento: la partecipazione dell’anima alla morte e alla vita. Se, invece di “Simmia”, “Socrate”, “le cose”, “il dieci”, si pone la domanda su “l’anima” e sulle idee: “morte” e “vita”, ecco che si può ragionare su come essa partecipi di quelle idee (“l’anima, qualunque cosa essa occupi, vi si accosterà portandosi dietro la vita” e “non c’è da temere che accoglierà mai il contrario di ciò che essa porta sempre con sé”, cioè la morte).72

Non è certo il caso di addentrarsi nello specifico dell’argomentazione. Limitiamoci a cercare, nel repertorio odissiaco, che tipo di viaggio sia questo ultimo sull’immortalità e incorruttibilità dell’anima. Terminato l’excursus autobiografico e ottenuto il fragile consenso di Cebete, costui esorta Socrate a condurre la dimostrazione velocemente, senza frapporre indugi. Inoltre, nelle successive affermazioni di Socrate, si può agevolmente vedere come il possesso di un logos sulle idee conferisca al suo possessore una sicurezza del tutto inedita. Socrate, che dice di agitarsi quando si sente proporre altre ‘cause’, da esse si congeda, le ‘saluta’: τὰ µὲν ἄλλα χαίϱειν ἐῶ, ταϱάττοµαι γὰϱ ἐν τοῖς ἄλλοις πᾶσι.73 La locuzione davvero inconsueta per il contesto, ‘mandare tanti saluti alle obiezioni’, torna altre due volte, insieme all’esortazione, a Cebete, a non rispondere a tali obiezioni fino al momento in cui possegga un logos ben rafforzato per essere stato verificato con un altro logos campione.74 I nemici, contro cui Socrate stesso e Cebete possono far valere il proprio metodo e il proprio logos, sono “i sapienti di cui si diceva” da cui bisogna guardarsi, finché non si abbia la necessaria esperienza.75 La risposta fornita dal logos sulle idee è infine la più sicura, ἀσφαλέστατον, e tenendosi stretti ad essa non si può cadere, οὐϰ ἄν ποτε πεσεῖν.76 Quando Fedone termina di raccontare come Socrate abbia mostrato a Cebete i pregi del logos su cui egli ha dato l’assenso e quale sicurezza esso fornisca al suo portatore, Echecrate interrompe la narrazione per esprimere il suo stupore sull’evidenza attinta da Socrate col suo ragionamento. Un sentimento, dice Fedone, che anche gli astanti provarono mentre Socrate parlava.77

Si confronti questa ‘drammatizzazione’ con l’inizio del libro XIII dell’Odissea. Odisseo ha finito i suoi racconti: gli ascoltatori sono silenti, come incantati, Alcinoo esorta i presenti a ‘dare’ all’ospite i doni che egli porterà con sé nel ritorno in patria. L’indomani, i doni vengono collocati sotto i banchi della nave e viene consumato il pasto. Ma Odisseo è impaziente, smanioso di andarsene. Desidera ormai che il sole tramonti, per andar via. E quando giunge il momento, si rivolge alla regina e la saluta: Χαῖϰή µοι “stammi bene”.78 Detto ciò viene condotto alla nave. La nave feacia, concessa da Alcinoo, ha il pregio della velocità: a differenza della zattera, sempre soggetta a sbalzi e precaria, fende le onde, costante, sicura, senza mai temere di soffrire alcun danno o d’andare in rovina.79

Anche nel Fedone, si giunge rapidamente a conclusione.

Si vede dunque come il logos sulle idee, già prima in grado di rendere il suo possessore immune dalle lusinghe di altri logoi, rafforzato dall’assenso di Cebete -come il ritorno in patria di Odisseo lo era stato dai doni di Alcinoo- si mostri tale da poter portare con estrema velocità e sicurezza alla conclusione della dimostrazione. Troppa velocità, addirittura! Benché sia Simmia che Cebete non abbiano motivi per non prestare fiducia ai ragionamenti di Socrate, essi -soprattutto Simmia- sono ancora increduli. Bisognerà, dice allora Socrate, riconsiderare il tutto per riuscire a star dietro al ragionamento, nella massima misura possibile per un uomo.80

La vera terra e il vero cielo

Metafore marine e reminiscenze odissiache del V libro si infittiscono nella parte finale del dialogo, ingiustamente svalutata da molti studiosi, nella quale la condizione umana è paragonata a quella di chi, abitando in fondo al mare, fosse convinto di abitare invece la terra. La similitudine, lunga e articolata, è contenuta in un lungo excursus di carattere geografico che occupa a sua volta la parte centrale del cosiddetto “mito escatologico”. Il carattere di excursus della sezione è ben evidenziato da formule di introduzione e di conclusione.81 Mentre sta raccontando cosa accade alle anime, di cui ha appena dimostrato l’immortalità, quando giungono nell’Ade, Socrate esprime l’intento di illustrare agli astanti l’aspetto e la dimensione della terra, poiché “essi non corrispondono all’opinione di coloro che sono soliti occuparsene”, come Socrate ha appreso da un tale, di cui non viene detto il nome. Su incitamento di Simmia, egli procede dunque ad illustrare le opinioni che ha sentito, fino a quando non dichiara di aver esaurito l’argomento e ritorna al mito dell’Ade. Nonostante il precedente omerico e odissiaco, proprio in questa parte del mito il riferimento specifico a Odisseo si fa via via più fragile: il mare umano e familiare e ancora attraversabile si stempera e si perde progressivamente nello spettacolo della gigantesca voragine, che nessun Odisseo potrebbe risalire.

Spesso si sottovaluta la portata filosofica della geografia del Fedone, mentre invece ritengo che si tratti di un momento importante nell’economia del dialogo e decisivo per la sua comprensione globale.82

La terra -dice Socrate- è πεϱιφεϱής, circolare (cioè sferica), se ne sta ferma nel mezzo del cielo e per non cadere non ha bisogno dell’aria, perché allo scopo sono sufficienti la ὁµοιότης del cielo con se stesso in ogni sua parte e l’equilibrio derivante dalla sua forma sferica. Un oggetto così ben equilibrato non può inclinarsi da nessun lato, può solo rimanere come e dove è. Si tratta indubbiamente della teoria di Anassimandro di cui sappiamo con certezza che pose il problema della stabilità della terra sospesa nello spazio, fornendo una soluzione diversa da quella data da Anassimene e da Senofane. “Poiché si parla di terra sferica -sostiene Livio Rossetti- il Socrate di questo passo è sicuramente espressione di una cultura astronomica più ‘avanzata’ di quella di Anassimandro”, ma non c’è dubbio che Platone stia svolgendo idee di Anassimandro senza dichiarare la sua fonte.83

Ciò fa sorgere un quesito: questo genere di studi non era proprio quello da cui Socrate ha affermato di essersi allontanato irreversibilmente? Socrate ha ben presente che quel che gli resta da vivere è ben poco, insufficiente per intavolare un ragionamento persuasivo su questi argomenti, ma tuttavia ritiene di poterne fare una esposizione. Come si spiega che quella prospettiva respinta con passione nell’excursus biografico ricompaia proprio all’interno dell’ultimo discorso di Socrate? Che senso ha, in punto di morte, parlare di argomenti di tal genere?

Abbiamo visto come ai libri di Anassagora Socrate chiedesse la ‘causa’ di eventi quali l’esser seduto in quel preciso momento con gli amici nel carcere in attesa della morte. A quella domanda Anassagora non sapeva rispondere e Socrate dovette faticosamente cercarsi una risposta per vie diverse. Ora, mi sembra, le teorie di Anassimandro consentono di ritornare su domande come quella, ma da una prospettiva completamente diversa. Mentre i fisici di cui si parlava nell’excursus si rovinavano la vista fissando il loro sguardo sul cielo, questo Socrate estremo fissa la terra dal cielo. Il cielo, immenso, vuoto, uniforme e uguale a se stesso in ogni sua parte, è diventato un punto di osservazione. Infatti, immediamente dopo la citazione occulta di Anassimandro, ecco il frutto -inedito- di questa perlustrazione circolare della terra: visti dall’alto e osservati dopo aver percorso col pensiero il mondo in tutta la sua ampiezza, risulterà che “noi, […] ne occupiamo una piccola parte, abitando intorno al mare come formiche o rane intorno a una palude”.84 Da questa nuova, inedita, sorprendente prospettiva (ancor più sorprendente se si pensa che Socrate si trova in una prigione) si coglie il carattere irrilevante di tutto ciò che prima ci sembrava di conoscere. Ecco a cosa possono servire i libri dei fisici.

Ma questo movimento dall’alto -liberatorio- dischiude alla vista ciò che la natura contiene di sotterraneo, di segreto, di interiore: si svelano allo sguardo del Socrate anassimandreo le infinite cavità in cui dimorano gli uomini, i loro bassi cieli, i loro soli sbiaditi e le loro stelle smorzate. Ed ecco il riferimento odissiaco: l’uomo vive abitualmente, a causa della sua pigrizia, a metà strada fra il fondo del mare e l’aria: chiama cielo la superficie del mare, che egli vede dal basso e guarda le stelle e il sole e gli astri attraverso l’acqua; potrebbe emergere e spuntare fuori dalla superficie marina, come i pesci che fanno capolino dalle onde, e allora vedrebbe la vera luce, il vero cielo e la vera terra.85 Finalmente, di quel mare di cui si è parlato per tutto il dialogo, vediamo la verità. Si dispiega dopo il lungo sforzo argomentativo, la metafora a lungo trattenuta e quasi nascosta fra le pieghe del testo:

[…] questa terra, infatti, le pietre e ogni luogo di quaggiù è consumato e corroso, come le cose che stanno nel mare a causa della salsedine, e nel mare non nasce nulla che sia degno di nota, né vi è alcunché per così dire di compiuto, ma solo anfratti, sabbia, fango a non finire e pantani […]

e ancora, queste pietre sono

corrose e rovinate, da putredine e salsedine in seguito ai detriti accumulati, che arrecano bruttezza e malattie.86

Odisseo pure, al largo di Scheria, era stato ricacciato nel mare da una grossa onda, ne era riemerso e dalla sua sommità gli erano apparse infine la terra e la selva agognate. Sulla spiaggia feacia i residui marini avevano fatto apparire l’eroe orribile e “bruttato dalla salsedine”:87 un lavaggio prolungato e accurato si era reso necessario per riprendere un aspetto idoneo al vivere civile.

È un mare, quello contemplato dal Socrate anassimandreo, ancora odissiaco ma manca completamente il pathos della lotta impari dell’eroe contro i flutti: è invece una visione ex post, fatta da chi sia ormai fuori da quel mare, scrostato dalla sua salsedine e ripulito dalle sue brutture. Visto dall’alto, il mare stesso appare fittizio e artificiale: non oceanico né abissale come appariva a Odisseo (e anche a Simmia e allo stesso Socrate poco prima), ma angusto e fangoso come una piccola pozza. Questi uomini che abitano i fondi e le cavità della terra siamo “noi”; solo che il noi è adesso contemplato dall’alto, dall’estremità dell’aria dov’è il vero cielo, la vera luce, la vera terra. L’angustia e la limitatezza degli spazi cavi, da cui non viene distolto lo sguardo, non sembrano più far parte però dell’esperienza personale del filosofo, che arretra rispetto ad esse.88

Lo sguardo gettato dall’alto del cielo cosmico al fondo melmoso della terra, sembra ritrarsi da essa e rivolgersi verso la “vera” terra, che appare colorata e variopinta, purpurea, dorata, bianca. Tutto ciò che essa produce e che in essa si trova è lucente, levigato, grande e numeroso: alberi, pietre, metalli, animali e uomini che non conoscono acqua ma aria. In essa gli uomini hanno la pienezza dei propri sensi, godono del contatto con gli dei e vedono quali essi realmente sono il sole la luna e gli astri.

Tiriamo qualche somma: se la prima navigazione era condotta da un soggetto continuamente esposto al pericolo di danneggiare o smarrire se stesso, in balìa delle seduzioni e passivo rispetto alla conoscenza, e la seconda navigazione rappresentava l’affrancamento del soggetto dalle servitù e la costruzione di una nuova, propria, dotazione; questa navigazione ultima comporta una liberazione di sé perfino da se stessi, una contemplazione di sé dall’esterno. È la scienza a fornire il nuovo punto di vista: l’abito scientifico ci libera dall’angustia di uno sguardo limitato, ci permette di prendere possesso di se stessi, di misurare con esattezza l’esistenza perfettamente reale da noi costruita e che però è un’esistenza solamente puntuale, puntuale nello spazio e puntuale nel tempo. Esistenza di rane intorno ad uno stagno.

Ridurre noi stessi a un punto nel sistema generale dell’universo: è questa la liberazione effettuata dallo sguardo che possiamo gettare sull’intero sistema della natura.89 La scienza consente e coincide con una visione dall’alto su di sé (e non con uno sguardo ascendente verso qualcosa di totalmente altro rispetto al mondo in cui siamo); visione dall’alto su di sé che ingloba il mondo di cui si fa parte e che assicura così, in questo medesimo mondo, la libertà del soggetto. La conoscenza della natura, del cielo, della terra, anche di carattere speculativo, è in tal modo rimodalizzata per farne elemento pertinente nella trasformazione di sé.

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Cerri, 2003a, pp. 51-62; Cerri, 2012, pp. 151-194. Come Cerri rileva, alla pagina del Fedone è stata dedicata pochissima attenzione negli studi sulla biografia e sull’autobiografia antiche, a partire da Dihle, 1956, che pure riconosce il ruolo della figura carismatica di Socrate nello sviluppo del genere biografico, e da Misch 1949-503. Poca attenzione anche in Momigliano, 1974 così come in Gallo, 1974, pp. 173-186; vd. anche Gentili-Cerri, 1978, pp. 45-60; Camassa, 1994, pp. 303-332; Gallo-Nicastri 1996; Ehlers, 1998.
Sulla conversione (ἐπιστϱοφή) alla filosofia, che ha molte analogie con la conversione religiosa, vd. Gigon, 1946, pp. 1-21, e Nock, 1933.
Ib., p. 45.
Ib., pp. 46-47.
La metafora della “seconda navigazione” ha posto svariati problemi interpretativi. Anzitutto, cosa significa precisamente δεύτεϱος πλοῦς? È un metodo di ripiego? E, se si tratta di una “seconda scelta”, com’è possibile che sia il metodo da applicare al passaggio dal sensibile all’intellegibile? Oppure il cambiamento di metodo implica anche un cambiamento di oggetto? E inoltre: qual è la “prima navigazione” rispetto alla quale la seconda indica un mutamento radicale? Vd. una sintesi delle soluzioni offerte dagli studiosi in Trabattoni 2011, LXVIII-LXXII e nelle note; Principali contributi: Shipton, 1979, pp. 33-53; Ross, 1982, pp. 10-25; Tait, 1986, pp. 455-82; Van Eck 1996, pp. 211-26; Kanayama, 2000, pp. 41-100; Martinelli Tempesta, 2003.
Privitera, 2005, p. 109. Del viaggio da Ogigia a Scheria, l’Odissea presenta sia un racconto autobiografico che un resoconto biografico.
Martinelli Tempesta, 2003, evidenziando, in contiguità col tema del “viaggio”, la corrispondenza fra Socrate e Odisseo, ritiene prevalente l’aspetto catabatico e cerca nell’ XI libro dell’Odissea il contesto che potrebbe aver suggerito a Platone l’uso del proverbio “seconda navigazione”.
Sulla valenza narrativa dell’excursus, vd. Gower, 2008, pp. 329-46 e Hoinski, 2008, pp. 346-53.
Mi permetto di rimandare, sul tema, a Caserta, 2013 e 2014.
Vd., su questo tema: Tagliapietra, 2001, pp. 30-46: “la magia di Circe, il sortilegio di trasformare gli uomini in animali può sembrare, infatti, null’altro che la messa in luce della loro autentica natura”. L’autore vi vede un “passaggio obligato” nel “primo dei due grandi miti escatologici del Fedone, dove Platone immagina la reincarnazione delle anime dei malvagi che per il desiderio della corporeità finiscono per collegarsi ad un corpo il cui comportamento sia simile alla condotta che essi tennero in vita” (Phd., 80a10-84b8). Così coloro che si diedero alle gozzoviglie, alle violenze e al bere, elenca Socrate, si reincarneranno in asini o animali di questo genere.
I diversi esempi di ‘causa’, apparentemente eterogenei, che Socrate illustra in questa sezione e nella precedente hanno suscitato infinite discussioni fra gli studiosi. Giustamente, Trabattoni 2011, LXIII individua il principio unitario che li tiene insieme nel tentativo di dimostrare “che nelle nostre esperienze percettive ci appaiono degli oggetti, o degli eventi, che le sole cause materiali non riescono a giustificare”. Rispetto a queste critiche, mosse ai fisici, quella mossa ad Anassagora è, secondo Trabattoni, di natura completamente diversa, e cioè: “di aver determinato in modo insufficiente la natura dell’intelletto, ignorando la sua funzione di causa finale”.
Fra tutti i quesiti formulati da Socrate nel corso dell’excursus, questo mi pare quello che meglio mette a fuoco il problema: il fatto che Socrate sia stato accusato, giudicato colpevole e condannato a morte deve essere, non diversamente dal fatto che la terra sia piatta o rotonda, giustificato in vista del meglio, deve avere un suo posto nell’ordine della natura (e di esso dovrebbe essere responsabile un ente intelligente e responsabile, un nous di tipo anassagoreo). Ma la conoscenza unitaria, completa e perfetta di questa causa finale —come Socrate dirà poco oltre— è indisponibile, ed è questo il motivo per cui bisogna volgersi ai discorsi, cioè ad una giustificazione umana da costruire di volta in volta e per ciascun fatto o fenomeno. Se sfugge il legame fra il dato biografico e l’impegno dottrinale resta poi incomprensibile perché sia necessario “rifugiarsi nei discorsi” e che cosa ciò voglia dire: in realtà lungo tutta la tetralogia che comprende il Fedone, e cioè fin dall’Eutifrone, Socrate ha mobilitato una grande quantità di logoi con i quali affrontare il dato biografico dell’accusa e della condanna.
Atlante è un Titano, figlio di Giapeto e Climene; in Esiodo, Th., 509, 517-520, sostiene il cielo con la testa e con le mani, nel lontano occidente; questa idea risulta successivamente combinata con quella di origine orientale, di pilastri che reggono il cielo: ne risulta l’immagine di Atlante come una sorta di colonna con base sulla terra, come in Pr., 348 e ss. Nell’Odissea è il padre di Calipso: vd. I, 52 (in cui è definito ὀλοόφϱονος) e VII, 245. La collocazione oceanica dell’isola di Calipso sembra implicita nel toponimo Ὠγυγίης che deve intendersi come aggettivo (“antica” o “dell’oceano”) in unione al sostantivo νῆσος: vd. Heubeck- West 200710, nota a I, 52, e Hainsworth 200711, nota a V, 55, e a VI, 172. Per una discussione sulla controversia ellenistica circa la natura oceanica delle navigazioni odissiache, vd. Cerri, 2004, pp. 87-134. Sugli stralci di una sezione perduta dell’opera di Polibio, in cui lo storico si occupava della questione, che conosciamo attraverso Strabone, vd. Walbank, 1979, pp. 577-587.
Privitera, 2005, p. 100. Ogigia, secondo lo studioso, è contemporaneamente nell’estremo occidente e al centro del mare: due indicazioni disparate ma coerenti sul piano simbolico ad indicare luoghi remoti e misteriosi. Ogigia è “una scheggia di paradiso, nel senso proprio del termine”.
Dall’interpretazione del ταύτης iniziale, dipendono infatti una serie di congetture su quale sia la ‘prima navigazione’ e perché essa fallisca: vd. Trabattoni 2011, pp. 280 ss.
Per quanto riguarda l’oggetto, Vlastos, 1969, pp. 193-243, seguito da altri, ritiene che si tratti della causa finale; mentre Ross, 1982 ritiene si tratti delle cause naturali: la generazione e la corruzione. Ma entrambe sono ‘risposte’ al quesito “perché?” dunque non mi pare proficuo chiedersi che tipo di risposta Socrate stia cercando. Il processo è induttivo: dalle cose, al quesito se esse, quali sono al momento, siano o no collegate al bene, all’ipotesi infine che esista la potenza che le tiene legate e le dispone nel miglior modo possibile, passando attraverso l’errore di demandare l’azione finalizzatrice ad “un Atlante”.
L’idea della conoscenza libresca come abito potrebbe essere stata favorita da un’associazione fra il foglio da usare per la scrittura e il velo bianco di Leucotea; nell’Ippia Minore, peraltro, i libri sono menzionati come oggetti facenti parte di una sorta di corredo del sofista, che comprende anche abiti, gioielli, calzature e altri manufatti.
Sui motivi per i quali, anche a prescindere dal contenuto, il ‘libro’ e l’ascolto della lettura ad alta voce, sono strumenti inidonei alla ricerca filosofica, mi permetto di rimandare a Caserta, 2013. I libri di Eutidemo, come una ‘tabella’ a due colonne, sono come inventari di azioni e casi passati che sia possibile descrivere sincronicamente come ‘giusti’ o ‘ingiusti’, ma sono insufficienti a decidere della giustizia o ingiustizia di casi non ancora verificatisi, in via di svolgimento, o ai quali il tempo abbia conferito una complessità irriducibile.
Nella terra dei Ciconi, Odisseo non riesce a farsi ubbidire dai compagni che indugiano in bevute e banchetti; dopo la prima sosta nell’isola di Eolo, l’eroe si addormenta lasciando incustodita l’otre, che viene squarciata dai compagni scatenando la furia dei venti; con ostinazione avvicinandosi a Scilla si arma per combatterla, nonostante i consigli di Circe; non riesce a impedire ai compagni di sbarcare nell’isola della Trinachia. Cede, dopo aver accecato Polifemo, alla tentazione di dire il proprio nome, attirandosi l’ira di Poseidone. Sulla propensione di Odisseo a lasciarsi vincere dal sonno e dal cibo, si sviluppò una polemica fra vari esponenti della filosofia cinica: vd. su ciò S. Montiglio, 2011, p. 70; più in generale su Odisseo nel pensiero stoico e cinico, vd. Stanford, 19682, pp. 121 e ss.; sull’idea socratica e poi cinica del governo di sé come prerequisito per il governo degli altri, vd. Höistad, 1948.
Vd. Cerri, 2012. La cifra specifica di questa relazione polemica è individuata da Trabattoni 2011, p. 43, n. 49.
Nu., 264. Poco prima, nella commedia, un discepolo di Socrate aveva mostrato a Strepsiade “la mappa di tutta la terra”, forse un oggetto analogo al pinax di Anassimandro, il quale secondo Diogene Laerzio, II, 2, seppe anche realizzare una non meglio precisata “sfera”. “Reggere la terra” poteva dunque essere per gli spettatori di Aristofane un gesto assolutamente muscolare e concreto.
Pl., Phd., 99d-e.
LSJ, s. vv. Νεφέλη, Νεφέλιον: “cloud-like opacity on the eye, lat. nebula”.
Non escludo, anche per le Nuvole, una reminescenza omerica: il coro che entra in scena dichiarando di dover scostare dal volto un “nuvolo piovoso” poteva richiamare alla memoria degli spettatori l’entrata di Odisseo nella sala di Alcinoo circondato di fitta nube. Odisseo, sgombrata la nuvola prodigiosa, opera di Atena, si prostra supplice alla regina Arete e solo allora appare agli astanti: “la prodigiosa nebbia si sciolse. Muti restarono in sala a vedere l’eroe, stupivano a guardarlo”. Odisseo, che agli occhi di Alcinoo appariva come un “immortale venuto dal cielo”, ribadiva al re la propria natura umana: “no, certo, / io non somiglio agli immortali che il vasto cielo possiedono / non per statura, non per figura, ma ai comuni mortali”. Sulla scena comica, la ‘rivelazione’ delle Nuvole deve aver avuto un effetto esilarante in senso esattamente contrario: le Nuvole, che avevano vantato con enfasi la propria immortalità, appaiono agli spettatori e poi a Strepsiade come donne assolutamente mortali, come Strepsiade non manca di notare. Vd. Hom., Od., VII, 139-145.
Trabattoni 2011, p. 281 osserva giustamente che il presupposto di questa prima navigazione è che l’oggetto da cercare sia visibile direttamente e possa perciò essere trovato con o senza l’aiuto di altri; mentre invece questo oggetto non è tale da poter essere attinto in modo diretto. Da cui l’errore e il fallimento della prima navigazione. Ma, a me sembra, la consapevolezza di ciò non può che essere attinta per gradi, man mano che si procede; non può essere considerato errore aver cercato qualcosa la cui natura non poteva essere nota prima di intraprendere la ricerca. Invece, io ritengo, ciò che cambia non è ’oggetto della ricerca, ma il soggetto che la intraprende. Allo stesso modo è il cambiamento intervenuto in Odisseo a rendere possibile identificare nella sua terra e nella sua sposa la meta cercata: non che prima egli non la cercasse, ma non la cercava come valore supremo, preferibile anche rispetto alla condizione divina. La “cosa cercata”, intendo dire, muta in relazione al mutare del soggetto che cerca e alle sue esperienze conoscitive. Altro sono casa e sposa per chi non sappia o non voglia esserne sovrano, altro per chi abbia faticosamente imparato ad esserlo. Quanto al metodo, nella seconda navigazione esso consiste nel servirsi di logoi come di una zattera, accordandoli fra loro sia al livello individuale (cioè essendo in accordo con se stessi), sia nel dialogo con un interlocutore (cioè ottenendo l’accordo altrui sul proprio logos), mentre nella prima navigazione il logos è usato come un abito, è un dono o un possesso, slegato dall’idea del navigare (e anzi di ostacolo) mentre rimanda piuttosto alle soste del viaggio, con le loro seduzioni e pericoli.
Phd., 97b.
Phd., 99e-100a. Vd. infra.
Sui vari significati che possono essere attribuiti alla locuzione, vd. Martinelli Tempesta, 2003 e supra n. 10. Ho dei dubbi che le varie attestazioni del proverbio possano essere salienti per la comprensione del Fedone, essendo tutte posteriori a Platone e non potendosi escludere che dipendano proprio dall’uso platonico. Circa la questione se si tratti di proverbio o di metafora, valgono gli stessi dubbi: la trasformazione nel senso del proverbio potrebbe essere successiva a Platone.
L’episodio odissiaco delle ancelle traditrici, il cui comportamento suscita l’ira dell’eroe, repressa in uno dei suoi tipici colloqui col proprio thymos, è ricordato in 94d6-7 per ribadire a Simmia la supremazia dell’anima rispetto al corpo e il controllo delle passioni. Due volte, inoltre, nel corso del dialogo, Socrate cade in un assorto silenzio, sempre dopo avere sviluppato un’argomentazione difficile sulla natura e sulla destinazione dell’anima. Secondo Gilead, 1994, le pause di silenzio di Socrate sono un’imitazione di Odisseo e indicano un dialogo interno in cui il filosofo persuade e governa il “fanciullino pauroso” che è dentro di noi.
Vd. Montiglio, 2011, p. 53: “the picture of Socrates […] as a self-reproaching Odysseus”.
Sul problema del suicidio e sulle varie ipotesi prospettate dagli studiosi, vd. Trabattoni, 1993, pp. 73-80.
Hom., Od., V, 97-170 (colloquio fra Ermes e Calipso, colloquio fra Calipso e Odisseo).
Infatti, anche con l’aiuto della dea, l’impresa sembra ad Odisseo impossibile ed egli teme che la liberazione nasconda un inganno. L’abisso (µέγα λαῖτµα) che circonda Ogigia, egli obietta, non può essere varcato neppure da “navi librate, veloci”.
Phd., 64d ss.
Hom., Od., V, 192-202 e 225-27.
Il cirenaico Aristippo e il cinico Bione identificheranno Penelope con la filosofia, iniziando una tradizione che giunge fino ad Eustazio: vd. Montiglio, 2011, pp. 87-94.
Phd., 63a-c.
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Hom., Od., V, 222-24.
Phd., 77e. Si tratta della µελήτε θανάτου, su cui vd. Hadot, 2005.
Nella Repubblica, 453d, l’avventura filosofica è presentata come una traversata per mare, in cui “sia che si cada in una piccola pozza, sia che si precipiti in alto mare, ci si mette a nuotare comunque […] dunque anche noi dobbiamo nuotare e tentare di uscire salvi da questo dibattito”. Su questa metafora, vd. Kofman, 1988, pp. 7-44. Vd anche Montiglio, 2011, pp. 142-47 che analizza l’immagine di Odisseo-filosofo in Massimo di Tiro e nel Neoplatonismo.
Phd., 66b-67b. Il riferimento odissiaco non esaurisce naturalmente tutta la problematicità del passo, in cui è da vedere forse un richiamo alle teorie pitagoriche.
Hom., Od., V, 356-64.
Pl., Phd., 85c-d. Il passo è spesso, a ragione, accostato a quello sulla “seconda navigazione” e ne chiarisce alcuni aspetti, in particolare il carattere svalutativo della locuzione; essa è seconda sia in senso banalmente cronologico, sia nel senso che rimpiazza una navigazione più veloce e sicura. Fuor di metafora ciò vuol dire, secondo me, che la conoscenza frutto di discorsi costruiti personalmente in base alle proprie esigenze conoscitive subentra alla conoscenza che giunge da fuori, già fatta, che si possiede per donazione, per rivelazione, per apprendimento da libri altrui. Quest’ultima è migliore dell’altra soltanto in un caso, puramente virtuale: che si tratti di una rivelazione divina. Ciò spiega l’ambiguità dell’ “intento deflazionistico” con cui Platone usa il proverbio. La conoscenza personale è al tempo stesso un ripiego (rispetto ad un’ipotetica rivelazione divina) e un salutare rimedio (rispetto alla conoscenza acquistata).
Od., V, 248. Secondo Montiglio, 2011, pp. 46 e 143, Odisseo è un “undelying model for the sailor trough life” e la sua immagine nella tempesta “lies behind the philosophical traveler”.
Su tutti questi argomenti, da quelli sull’immortalità a quello sulla reminiscenza, a questo sull’affinità esiste naturalmente una abbondante bibliografia: poiché però ci interessa mostrare come la drammaturgia contenga un’esemplificazione del concetto di “seconda navigazione” e come tale drammaturgia sia modellata sulla navigazione odissiaca, sarebbe fuori luogo una dettagliata esposizione delle posizioni degli studiosi su ogni argomento, per cui rimando alla puntuale analisi di Trabattoni 2011.
Nel V libro, Odisseo cerca in ogni modo di tenersi saldo alla propria imbarcazione, già sfasciata dalle onde, anche quando Ino Leucotea gli consiglia di abbandonarla: “finché i legni saranno confitti nelle loro giunture, / resterò ancora qui e, pur soffrendo dolori, resisterò” (361-62).
Phd., 100a. Sul passo, sulla terminologia e sul metodo che implica, si sono generate un’infinità di discussioni: vd. in particolare Van Eck, 1994 e 1996; Kanayama, 2000. La maggior parte degli studiosi sono convinti che Socrate intenda riferirsi al metodo di cui darà concreta dimostrazione subito dopo a Cebete. Poiché in quella dimostrazione sono coinvolte le “idee”, gli studiosi sono indotti a ritenere le due cose indissolubilmente legate e identificano nell’esistenza delle idee l’unica “ipotesi” valida. Trabattoni 2011, p. 189, n. 195 ritiene che Socrate possa riferirsi “eventualmente” anche al procedimento adottato con Simmia in 92d. Io penso invece che proprio quel procedimento sia l’esemplificazione più chiara del metodo e quello successivo, con Cebete, rappresenti piuttosto un caso del tutto particolare, quasi un’eccezione (come vedremo) a quel metodo. Del tutto trascurato, negli studi sulla questione, quello che invece mi sembra un punto nodale: cioè l’accordo fra interlocutori come base per la ulteriore discussione. L’ipotesi è per Socrate (anche) un discorso su cui convergono due parlanti.
Phd., 92b-c.
Curiosamente, su questa che poi è una caratteristica della dialogicità platonica trovo un’acuta osservazione in una nota del diario di Cesare Pavese, che sicuramente lesse Platone e tradusse i primi diciannove capitoli del Fedone per elaborare le idee sul mito che troveranno espressione nei Dialoghi con Leucò. In una riflessione del 4 giugno 1942 del Mestiere di vivere, Pavese sottolinea l’importanza del procedimento platonico per produrre una “atmosfera | di miracolo significativo”, e aggiunge: “la composizione unitaria che cerco potrebbe essere il procedimento platonico del ‘discorso dentro il discorso’ ”. Nel Fedro, nel Convito ecc. succede che ogni parlata, ogni situazione, ogni gesto quasi, ha un suo senso realistico che combina col resto e fa struttura, ma anche un posto e un valore in una costruzione di senso spirituale che la trascende. Ogni situazione è là per più di un motivo; per fare quadro realistico, per sviluppare un ragionamento, per simboleggiare una posizione mentale, per allineare blocchi di realtà spirituali che fanno quadro a loro volta”.
Phd., 95c.
Phd., 63a9.
Phd., 59c: Τίνες ἦσαν οἱ λόγοι;
Phd., 58e.
Phd., 89a2.
In 66a Simmia commenta entusiasticamente la sezione finale della discussione sulla melete thanatou: “E’ straordinario —disse Simmia— quanto tu abbia ragione, Socrate”; dello stesso tenore sono i suoi successivi interventi: “certamente”, “in tutto e per tutto”, “è evidente”; lo stesso accade con Cebete da 70a in poi, fino a 72b: “mi sembra che tu abbia assolutamente ragione” e nella discussione seguente; la dimostrazione è detta poi “sufficiente” da Simmia in 77a e incompleta da Cebete in 77c e infine “insoddisfacente” in 85d, “fermo allo stesso punto” in 86e. Una totale “sfiducia” prende tutti gli astanti in 88c.
Phd., 88d-e.
Phd., 89b: Socrate dice a Fedone: “oggi io taglierò i miei capelli e tu i tuoi nel caso che il logos ci muoia e noi non siamo in grado di farlo ritornare in vita”.
Phd., 90e3-4 e 91b9.
Phd., 102a5-8.
Phd., 104c11-12.
Phd., 90b4.
Un punto di vista simile in Hoinski, 2008.
Sebbene Socrate affermi con decisione, in 100b, che si tratta di cose già dette e ripetute un sacco di volte, l’ipotesi “che ci sia un bello in sé” e che questa sia la ‘causa’ non era ancora stata fatta, e dal discorso precedente sapevamo soltanto che Socrate si era messo alla ricerca della causa, approntando un metodo di validazione dei logoi. Questa ipotesi, evidentemente trovata in un qualche momento della seconda navigazione, non è ancora stata validata: infatti viene chiesto a Cebete di “concederla”.
Cebete concede il consenso in modo totalmente differente rispetto a Simmia, cosicché l’ “ipotesi” appare molto più arbitraria. Ciò indice a ritenere che tutta la terminologia sull’ipotesi debba essere intesa in senso lato, sul modello “costruttivo” della zattera di Odisseo, come “porre sotto”, “costruire qualcosa che serva come base o fondo” per ulteriori sviluppi.
Tutta l’argomentazione è compresa fra 100c e 102a; poi vi è un nuovo intervento di Fedone ed Echecrate che interrompe l’argomentazione, la quale prende poi una piega diversa (e trova il suo vero obiettivo) ricollegandosi al discorso sull’anima.
Si tratta dell’ultima notissima prova a favore dell’immortalità dell’anima.
Phd., 100d.
Phd., 101b10 e 101d4.
Socrate fa leva sulla “paura” di Cebete, per indurlo a non lanciarsi prematuramente in complesse discussioni abbandonando l’ipotesi. Forse, nell’atteggiamento guardingo e attendista che Socrate consiglia a Cebete, come nel “tenersi stretto” all’ipotesi si può scorgere l’immagine di Odisseo che, passando per la seconda volta fra Scilla e Cariddi, di cui conosce le insidie e che sa di non poter combattere con le sue armi, si tiene saldamente attaccato ad un alto fico in attesa che Cariddi risputi fuori i resti della nave. Vicenda narrata in Od., XII, 429-46. In tutta questa parte della dimostrazione vi sono una serie di ambiguità e di incongruenze, sul piano narrativo, che vale la pena notare: talora sembra che l’ipotesi delle idee sia una sorta di stratagemma grossolano e perfino sciocco e chi la adopera sia persona paurosa e facilmente preda della confusione; talaltra sembra invece che essa consenta di accedere velocemente ad un livello più alto di discussione e di conoscenza. Come se essa fosse guardata da punti di vista diversi: di chi guarda dall’esterno e può trovare banale (come infatti è accaduto) la dimostrazione, e di chi vive la scoperta dall’interno e gli sembra di aver raggiunto una meta a lungo attesa e cercata.
Phd., 100d-e e 101d.
Phd., 102a.
Hom., Od., XIII, 59.
Hom., Od., VIII, 563.
Phd., 107b.
Rispettivamente, Phd., 108d-e: “L’aspetto della terra, quale mi sono convinto che sia, e i suoi luoghi nulla impedisce che io li esponga” e 111c: “Questa è nel complesso la costituzione naturale della terra e delle cose che stanno intorno alla sua superficie”. La parte successiva, fino a 113d: “ questa è la conformazione naturale di questi luoghi”, è dedicata ai fiumi sotterranei.
Sulla teoria di Anassimandro e la sua presenza nel Fedone: vd. Rossetti, 2013, pp. 24-61. La terra vista dall’alto somiglierebbe alle δωδεϰάσϰυτοι σφαῖϱαι, “palle di cuoio con dodici spicchi”. Jacob, 2002, pp. 3-17 ricollega la tradizione platonica (ma non soltanto) del volo dell’anima negli spazi cosmici e dell’esercizio spirituale dello sguardo dall’alto alla fruizione di mappamondi, carte e sfere celesti. Nell’Accademia, sostiene Gaiser, 1981, si dovevano svolgere lezioni e discussioni come quella rappresentata nel “Mosaico dei filosofi” (ritrovato a Torre Annunziata, verosimilmente copia romana di un originale ellenistico): sette filosofi —Eraclide Pontico, Speusippo, Platone, Eratostene, Eudosso, Senocrate e Aristotele— che discutono intorno ad una sfera celeste posta all’interno di una cesta.
Phd., 109b.
Phd., 109e.
Phd., 110a.
Hom., Od., VI, 137.
Nella Repubblica, 486a, nel Fedro, 246b-c e nel Teeteto, 173e Platone raccomanda un esercizio spirituale, poi praticato da varie scuole filosofiche, che consiste in una dilatazione dell’io nella totalità del reale o in un volo dell’anima negli spazi cosmici. Si tratta, secondo Hadot, di un esercizio di distacco, di allontanamento, destinato a insegnarci a vedere le cose con obiettività e imparzialità. Stupisce che lo studioso non annoveri tra i testi citati in proposito questo passo del Fedone, tanto più importante in quanto a compiere l’esercizio è Socrate nel momento stesso della sua morte. Vd. Hadot, 1988, pp. 31-40 e 1998, pp. 195-203.
Nelle scuole filosofiche ellenistiche, è noto, le varie discipline fra cui la fisica e le scienze naturalistiche non erano soltanto discorsi teorici ma materia per esercizio da praticarsi concretamente. Della tradizione della scienza come esercizio spirituale, che arriva fino al Seneca delle Naturales Quaestiones, mi sembra che il Socrate dell’excursus del Fedone possa essere considerato a buon diritto l’iniziatore. Vd. su ciò, Foucault 2001, pp. 245 ss.